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A margine dell’accordo di pace firmato a Sharm el-Sheikh tra Israele e Hamas, il presidente FIFA Gianni Infantino ha annunciato un piano di sostegno per la ricostruzione delle infrastrutture calcistiche di Gaza. Un gesto che, sulla carta, punta a rilanciare lo sport come strumento di speranza. Ma il tempismo solleva più di un dubbio. Dopo settimane di proteste, cortei e richieste di esclusione di Israele dalle competizioni internazionali, l’intervento FIFA appare come un tentativo di riequilibrio diplomatico, più che una reale strategia sportiva.

Il calcio come alibi geopolitico?

Gaza, la FIFA interviene. Ma perché ora?

Infantino ha parlato di “sostenere, aiutare, assistere” il processo di pace, promettendo fondi per nuovi campi, programmi giovanili e mini-arenas. Ma nessuna parola sulle pressioni ricevute da federazioni e tifoserie palestinesi, né sulla posizione FIFA rispetto alle accuse di complicità istituzionale. Il calcio, ancora una volta, viene usato come copertura narrativa: un linguaggio neutro per evitare di prendere posizione.

Un piano o una vetrina?

Il documento firmato con la Federazione Palestinese (PFA) parla di ricostruzione, ma non chiarisce tempi, budget né partner operativi. L’invito a “unirsi all’iniziativa” suona più come una call pubblicitaria che come un piano strutturato. E mentre Gaza resta devastata. La FIFA si limita a promesse generiche, senza affrontare il nodo politico che ha scatenato la crisi.