Il VAR non è il male del calcio italiano. Lo è la sua gestione, le sue interpretazioni, le incoerenze, le pressioni ambientali e le convenienze tattiche. Lo è quel sistema che, invece di usare la tecnologia per garantire equità, la piega a logiche di potere, di narrazione e di opportunismo.
Il paradosso dell’errore “evidente”
La regola è chiara: il VAR interviene solo in caso di “chiaro ed evidente errore”. Ma chi decide cosa è evidente? E con quale coerenza? Il rigore assegnato al Milan contro la Fiorentina ha riaperto il dibattito, ma non è il VAR ad aver sbagliato: è chi lo ha interpretato. È chi ha deciso che quel contatto fosse sufficiente. È chi, in altri contesti, avrebbe lasciato correre.
Regolamenti troppo liberi, decisioni troppo variabili

Il problema non è la tecnologia, ma la sua applicazione. I regolamenti lasciano spazio a troppe letture, e ogni weekend diventa una roulette arbitrale. Lo stesso contatto può essere rigore a San Siro e simulazione all’Olimpico. E chi si lamenta oggi, spesso ha beneficiato ieri.
I lamenti che portano agli scudetti
Gasperini, Sarri, Pioli: tutti hanno alzato la voce contro il VAR. Ma tutti hanno anche goduto di episodi favorevoli. E ora, chi ha vinto chiede che in nazionale vengano convocati solo gli under 23. Non per una visione tecnica, ma perché la propria squadra fatica a ingranare. Il VAR diventa così capro espiatorio, strumento di distrazione, leva retorica.
Calciopoli non è un ricordo, è un monito

Calciopoli ha mostrato come il sistema possa essere manipolato. Oggi non serve più il telefono: bastano le pressioni mediatiche, le interviste post-partita, le campagne social. Il VAR è solo un nuovo campo di battaglia, non il nemico.
Serve trasparenza, non revisionismo
Il calcio italiano non ha bisogno di abolire il VAR. Ha bisogno di riformare chi lo gestisce. Di creare protocolli chiari, di formare arbitri capaci di resistere alle pressioni, di garantire uniformità. Perché la tecnologia è neutra. Sono gli uomini a renderla ingiusta.
